sabato 17 settembre 2016

5 Buone ragioni per andare a vedere il documentario sui Beatles

Il regista Ron Howard in un'operazione che non ti aspetti: un film documentario, di oltre due ore, sui Beatles. Non sull'intera carriera, e non, soprattutto, sui luoghi comuni di cui già si è detto tutto (per esempio, Yoko Ono non viene neppure nominata). E' un film che si sofferma sull'immagine pubblica del quartetto, e si limita al massacrante periodo 1962-1966 in cui giravano il mondo come trottole e registravano LP ogni 6 mesi, manco fossero la scuderia di Cecchetto negli anni 80.

Non sono un critico cinematografico, ma amo molto i Beatles: ecco quindi 5 buone ragioni per correre al cinema a vedere questo film, che tra l'altro sarà nelle sale solo fino al 21 settembre.

1) L'immagine pubblica
Chicago, 1965

Il film, a parte alcuni sporadici dietro le quinte, mostra per lo più una carrellata di esibizioni del quartetto (concerti, ma anche apparizioni tv, interviste, fughe dai fan, spezzoni dai due film cui hanno preso parte). Per chi non c'era, e forse ancor di più per chi c'era, un'occasione unica per vivere e capire il fenomeno pop che negli anni 60 ha sconvolto il mondo. Loro quattro sono stati il primo vero fenomeno globale della storia, un muro compatto di teenager che ovunque li seguiva adoranti, indipendentemente da razza, religione e nazione.

2) I fantastici quattro
Qui la cosa davvero sorprendente del film: immagini per lo più pubbliche, si diceva, accompagnate da interviste oltre che a loro, al manager (Brian Epstein), al produttore George Martin recentemente scomparso e ad alcuni VIP in ruolo di fans (Whoopi Goldberg ad esempio). Eppure si coglie come, nonostante i Fab Four fossero spremuti come limoni per tournée massacranti e sessioni sfibranti in studio, loro si divertissero sempre, almeno nei primi anni, e fossero veramente affiatati. Prendevano le decisioni sempre e solo tutti e quattro, e questo ha fatto sì che fossero davvero una famiglia tra loro (finché è durata).

3) Il montaggio analogggico
Il montaggio è veloce, incalzante, moderno. Le canzoni sono di contorno, e quasi mai vengono fatte ascoltare per intero: in altri termini, non è un film sulle canzoni dei Beatles, ma con le loro canzoni. Il film dura parecchio, ma si vede la mano di Howard che riesce mirabilmente a non far abbassare l'attenzione dello spettatore, con gli anni che scorrono sullo schermo (le immagini sono in ordine cronologico e scandite dalle date in sovrimpressione) e la voglia di scoprire cosa succede dopo.


4) il finale
Giuro, mi sono commosso nel finale. Il salto temporale tra '66 e '69 (quando ognuno ormai era diventato "altro" dall'essere semplicemente 1/4 dei Beatles e spettacoli dal vivo non ne facevano più) e quel meraviglioso concerto a sorpresa, nel gennaio '69, sul tetto della Apple (ancora una volta immagini pubbliche) che ci regala un po' di malinconia, pensando al fatto che quella era veramente la fine, come traspare dai loro volti.

5) il dopo finale
Dopo i titoli di coda, non scappate: c'è una mezz'oretta extra. Una porzione consistente del loro concerto dell'estate 1965 allo Shea Stadium statunitense. Concerto con folla oceanica e adorante, che ci proietta in quel clima infuocato e, nonostante i mezzi tecnici insufficienti (Ringo racconta che non riusciva a sentire cosa cantavano gli altri tre, e doveva seguire i movimenti dei loro piedi per capire a che punto del brano erano), dà un'idea dell'energia e passione che i quattro baronetti trasmettevano al pubblico.

Se, come a me, vi piacciono gli ultimi Beatles, quelli del Sgt. Pepper, sappiate che non ne troverete traccia nel documentario; però ripassare cosa è successo prima aggiunge dei tasselli importanti alle vostre motivazioni sul perché i Beatles fossero meglio dei Rolling Stones.

Unico neo: il film attinge molto (anzi, quasi esclusivamente) dal materiale USA. Ma perdoniamo a Ricky Cunningham di aver voluto raccontare il fenomeno probabilmente dai suoi occhi di fan. A stelle e strisce.

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